Marina Vitali è seduta sul divano della sua casa milanese. Tiene in mano due quaderni ingialliti dal tempo su cui il padre Emilio, pittore ritrattista e vedutista, scrisse a mano con la penna blu. È il diario della fuga dal lago di Como attraverso i monti per raggiungere la Svizzera. Un viaggio cominciato in tutta fretta la sera del 17 settembre 1943 quando Vitali viene informato che, sul lago Maggiore, i tedeschi hanno compiuto dei rastrellamenti e hanno preso e picchiato degli ebrei e delle ebree prima di gettarli in acqua con delle pietre legate al collo.
“Io avevo sei anni e di quel giorno ricordo solo il viavai di persone nella nostra villa. Io e la mia famiglia – di origine ebraica ma in Italia da secoli e che si era spostata a Laglio da Milano per sfuggire ai bombardamenti – partimmo alle nove di sera insieme alle mie sorelle maggiori (Franca e Raimonda), ai miei genitori e alla governante diciottenne, ebrea di Ancona. La nonna paterna Margherita ci raggiunse il giorno dopo a dorso di asino. Il viaggio lo avevano organizzato i prestinai di fronte alla nostra casa (Anna Signori e Salvatore Galetti i cui nomi ormai da anni sono iscritti nel giardino dei giusti dello Yad Vashem di Gerusalemme). Erano loro che si erano messi d’accordo con i contrabbandieri per aiutarci a fuggire e che avevano organizzato la nostra fuga”.
La signora Marina, fatica a ricordare particolari ma rammenta che i Vitali non erano i soli a cercare la salvezza in quel sentiero di montagna: “C’erano tante altre persone: oppositori politici, disertori e militari che si incamminarono con noi e con cui ci rifugiammo per la notte tutti insieme al Roccolo”. La prima notte la passarono in una casa a 1’300 metri prima di raggiungere l’indomani Bruzella ed entrare così in Svizzera come recita il diario di Emilio Vitali: “Raggiungiamo i cancelli di frontiera. Vediamo molti soldati che tornano sfiduciati: la Svizzera non accetta più che gli ebrei perseguitati. Dove andranno questi poveri figlioli?”.
Da Bruzella ai campi di accoglienza fino a Lugano
Dopo essere stati accolti in un asilo del piccolo paese frontaliero, i Vitali vengono portati in un campo di accoglienza, la fabbrica di bottoni di Adliswil, nel Canton Zurigo. “Restammo lì un mese e mezzo e trovammo molti amici di Milano e persone che conoscevamo bene”.
E successivamente a Gattikon, frazione di Thalwil, distante solo pochi chilometri. “Dormivamo tutti insieme in uno stanzone enorme diviso solo per sesso: uomini da una parte, donne dall’altra. Il nostro giaciglio era fatto di paglia e una coperta per ripararci dal freddo. Il vitto era una brodaglia presa da un enorme bidone. Solo il sabato sera ci era concessa una cioccolata calda con dentro del formaggio. Poi, nel mese di dicembre, ci spostammo a Lugano”.
La quotidianità di Lugano
È qui in Ticino, nel quartiere Besso di Lugano, che i Vitali tornano ad assaporare la quotidianità e l’intimità. “Dopo esser stati in albergo a nostre spese, avevamo preso in affitto dei locali in una specie di residence. Non eravamo più rinchiusi con le guardie che ci controllavano, ma eravamo liberi. Io ripresi a frequentare la scuola e così le mie sorelle: mia sorella Raimonda le medie, mia sorella Franca il liceo in vista della maturità ed io la seconda elementare. Papà aveva ripreso il suo lavoro di pittore, diceva che doveva lavorare ‘perché se sto inattivo perdo la mano'”.
Emilio Vitali, infatti, aveva ripreso il suo lavoro eseguendo dei ritratti a varie persone della città. “Papà fece ritratti alla signora della famiglia della pasticceria Vanini in via Nassa, poi ai figli dell’ingegnere Pedrolini e alla signora della sartoria Barberis, alla signora Bernasconi e sua figlia e alla signora Rivolta. Con i soldi ricavati pagavamo il nostro soggiorno in Svizzera”, aggiunge.
Il ritorno a Milano
Non fu facile tornare a casa. Se l’edificio di San Babila, che erano stati costretti a vendere in quanto ebrei nel 1941, non era più nelle loro disponibilità, nemmeno quello preso in affitto in un’altra zona del centro di Milano lo era, dato che fu assegnato a una famiglia di sfollati della città.
“E così i miei genitori e le sorelle grandi andarono in una pensione e io dai miei nonni nel Varesotto per non perdere la scuola. Una volta riavuta indietro la casa siamo andati poi tutti a viverci. Papà ha continuato al suo lavoro di figurativo ma il pubblico voleva l’astratto. Lui da ritrattista non aveva il mercante che gli procurava i clienti. Era un freelance e per questo ha cominciato a fare il paesaggista vedutista”, continua Marina Vitali indicando alcuni quadri del salotto raffiguranti la laguna di Venezia dipinti dal padre.
Villa Oleandra e la sua storia
Per Marina e la sua famiglia il ritorno in Italia volle dire anche rimpossessarsi di Villa Oleandra. Durante la loro assenza la proprietà non fu occupata dai nazisti – come avevano temuto – e non divenne sede di uno dei loro comandi militari perché, prima della fuga, Emilio Vitali fece in modo di sistemarci alcune famiglie.
La villa, che fu comprata dal bisnonno di Marina nell’800, rimase di proprietà della famiglia Vitali fino agli anni ‘80. “Non era una villa facile da gestire per la manutenzione che necessita. C’erano solo due bagni all’epoca. Anche le camere erano molto grandi e con tante finestre”, spiega tenendo tra le mani una vecchia fotografia di Villa Oleandra in bianco e nero presa dal lago.
“Non ci sono più gli oleandri bianchi e rosa e nemmeno quel grande cedro del Libano che si vede qui. I nuovi proprietari lo hanno tagliato perché pare fosse malato. Ma su quell’albero i figli in età di leva militare degli inquilini che lì stettero durante la nostra assenza, costruirono un nascondiglio e, ogni qualvolta sentivano passare convogli di fascisti o sentivano passare automobili, vi si rifugiavano perché non volevano essere arruolati nella Repubblica sociale”, commenta Marina che ha tantissimi ricordi legati a quel posto e che, ogni volta che ci passa davanti per andare in Val d’Intelvi nella casa di montagna del figlio, riaffiorano.
Alla morte della madre nel 1986, le sorelle Vitali decisero di vendere Villa Oleandra che successivamente passò agli Heinz perché uno dei figli lavorava a Milano. Quando il rampollo Heinz tornò in America raccontò a Gregory Peck il proposito di lasciarla. La voce arrivò a George Clooney che poi si fece avanti e l’acquistò. “Io sono contenta perché è una persona per bene e che la sa apprezzare”, chiosa Marina Vitali.