Da allevatori a custodi: Lucia e Massimo hanno deciso di far diventare il loro piccolo allevamento di capre da latte un santuario di animali liberi. Una trasformazione che ha riscritto le loro vite e quella dei compagni a quattro e due zampe, sottratti a un destino di sofferenza e sfruttamento. Una storia a lieto fine per animali: umani e non.
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Pordenone, Friuli Venezia Giulia – Quando circa cinque anni fa Lucia e Massimo si sono trasferiti nelle terre alte della provincia di Pordenone, al confine con il trevigiano, nei pressi di Caneva, nessuno dei due sapeva bene come mettere su un allevamento di capre da latte per produrre il formaggio. «Abbiamo iniziato tutto da zero – ha esordito Massimo –, abbiamo imparato a mungere e a produrre il formaggio: siamo stati l’unico allevamento di capre da latte al pascolo».
Nato e cresciuto a Milano, Massimo è un informatico, ma nel 2008 lascia la città e va a vivere in Friuli, dove incontra sua moglie Lucia, psicologa e naturopata, «una ragazza di campagna», la descrive affettuosamente. Ma soprattutto una compagna con cui realizzare il sogno in comune di una vita più a contatto con la natura. «All’epoca pensavamo che mettere su un piccolo allevamento fosse la strada giusta per avverare questo progetto di vita, ma ci sbagliavamo».
Decidono di chiamarlo Fattoria ribelle il loro angolo di mondo, dove sin da subito provano a tutelare il benessere dei propri animali, opponendosi alle stringenti leggi di mercato. Ma i loro sforzi non bastano. Nonostante si trattasse di un piccolo allevamento infatti, Massimo e Lucia si rendono conto purtroppo che persino un’azienda di quelle dimensioni non può sfuggire alle logiche di mercato «coercitive e alienanti», come le definisce Massimo con amarezza.
COME NASCE IL SANTUARIO
Ogni capo di bestiame è considerato di solito poco più di un numero, sostenibile economicamente solo nel caso in cui riesca a produrre una certa quantità di latte al giorno. « Gli animali considerati improduttivi vengo eliminati. Noi non l’abbiamo mai fatto – prosegue Massimo – e per questo eravamo considerati degli allevatori fallimentari in partenza».
Ma non è solo questo: «Non riuscivamo più a tollerare l’idea di separare i capretti dalla loro mamma. Questo purtroppo va fatto anche nelle piccole produzioni. Di solito le femmine si tengono, perché rappresentano le nuove generazioni, mentre i maschi – improduttivi – vengono venduti e destinati al macello».
Così nella primavera del 2022, la coppia ha deciso di porre fine alla produzione casearia e trasformare la Fattoria ribelle in un santuario di animali liberi. «Di animali e persone libere», precisa Massimo. «Siamo fermamente convinti che la liberazione animale passi per quella umana e viceversa. Il nostro lavoro, sebbene su piccola scala, era diventato alienante. Avevamo smesso persino di alzare lo sguardo e renderci conto di che posto meraviglioso avessimo scelto per vivere».
A gennaio Massimo e Lucia pubblicano un libro, Noi come loro, l’intimo e accorato racconto della loro Fattoria ribelle. «È la nostra personale testimonianza di cosa si cela dietro un allevamento, per quanto piccolo possa essere. Spesso ci siamo resi conto che le logiche di mercato sono molto più spietate sui piccoli numeri, insostenibili sotto un profilo economico».
Siamo fermamente convinti che la liberazione animale passi per quella umana e viceversa
STORIE DI LIBERTÀ
Così, da allevatori, Lucia e Massimo sono diventati custodi di circa ottanta animali. «Con la Fattoria ribelle abbiamo deciso di conservare il loro habitat, la loro casa, i loro nuclei familiari, permettendo loro di vivere in totale libertà», aggiunge Massimo. «Prima stavamo perdendo quel contatto con la natura che ci aveva spinti a vivere qui, ora la nostra visione si è ribaltata».
Col tempo alle circa quarantacinque capre si sono aggiunte anche delle oche, delle galline, dei gatti, un maialino nano che era destinato a essere trasformato in un animale da appartamento e Shila, una vitella di poco più di un anno. «La sua storia mi emoziona sempre», mi racconta Massimo ripensando a quando un anno fa Shila è entrata nella loro famiglia.
Nata più piccola della media da un parto gemellare, Shila sarebbe stata destinata senza dubbio al macello: «Probabilmente sarebbe finita in qualche omogeneizzato», commenta Massimo senza mezzi termini. «L’abbiamo portata qui che aveva poco più di un mese: era intimorita e diffidente, ma non potrò mai dimenticare le feste che ci fece quel giorno. L’abbiamo svezzata e cresciuta, ma è rimasta giocherellona come quel primo giorno che è venuta a vivere da noi».
Da quando la Fattoria ribelle è diventata un santuario per animali liberi, sono diversi gli eventi di sensibilizzazione e divulgazione organizzati per l’autosostentamento del progetto. «Si possono anche fare delle semplici donazioni per aiutarci a prenderci cura degli animali», conclude Massimo. «Per noi il filo conduttore di ciò che facciamo è sempre la condizione di equilibrio fondamentale tra uomo e natura. Se una delle due parti è prevaricante, si genera sofferenza. Ed è ciò che abbiamo imparato con la nostra esperienza».
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