Lo scrittore e alpinista Enrico Camanni ci aiuta a capire lo spessore simbolico della perdita imminente, una perdita che va oltre gli aspetti scientifici
I ghiacciai sono una riserva d’acqua dolce, lo sappiamo, ma per l’uomo sono anche molto altro. Sono un simbolo, un mito anche, e sono stati uno spauracchio. Enrico Camanni ne scriveva nel 2010, nel suo Ghiaccio vivo. Storia e antropologia dei ghiacciai alpini(Priuli e Verlucca editori). C’è stata un’epoca in cui i ghiacciai venivano descritti come un «serpente congelato che striscia verso il mondo degli uomini», «una bestia accovacciata sul piedistallo di roccia», «una piovra tentacolare», «un drago». Si temeva la loro avanzata: una maledizione. I ghiacciai in fase di scioglimento sono stati descritti, da Camanni, come «candide vittime di un’anoressia incurabile». Oggi, al CdT, racconta: «Il ghiacciaio rappresenta, oltre a ciò che dicono gli scienziati, i glaciologi, qualcosa di più simbolico, sì. Rappresenta l’innocenza perduta, questo bianco a cui tutti siamo legati come parte del paesaggio alpino, come un vestito da sposa, è un bianco che ci riporta ai ricordi dell’infanzia. A mio parere, senza che ce ne rendiamo conto, rappresenta l’innocenza che oggi stiamo dilapidando, violentando. Quindi qui non abbiamo solo la perdita di un elemento fisico, pure gravissima, sia chiaro, ma la perdita di un paesaggio esteriore che è anche paesaggio interiore».
I ghiacciai, nella nostra cultura popolare, hanno vissuto questa profonda trasformazione. Per un montanaro di 300 o 400 anni fa, tutti questi ragionamenti non avrebbero avuto alcun senso. Anzi. «No, assolutamente. Anzi, i ghiacciai rappresentavano una minaccia, una paura, e venivano definiti come draghi, o demoni, non come qualcosa di bello e di affascinante. Poi c’è stata questa trasformazione, dettata dal romanticismo: la scoperta della bellezza nelle cose che ci facevano paura, belle proprio perché destavano timore. È il fascino di un mondo meno addomesticato, meno lavorato o addirittura vergine. Non il mondo degli uomini. Ecco, noi siamo figli di questa cultura, adattata dal turismo, che di fatto è finzione: ci fanno vedere, nella natura, le cose belle, quando in realtà la natura non è né bella né brutta, è natura e basta. I ghiacciai comunque sono entrati a far parte del patrimonio di cose da ammirare. E sì, oggi possiamo dire che un monte di ghiaccio che si staglia nel cielo è straordinario, una delle rappresentazioni più estreme della natura. Chi ama la natura non può non rimanere incantato».
Enrico Camanni, ma qual è stato allora l’inizio della fine? Forse, ci viene da pensare, quel cambio di paradigma si è infine rivelato deleterio, per i nostri ghiacciai. «Molto è cambiato con il passaggio del millennio. Negli anni Settanta abbiamo avuto ancora alcune annate fredde, e i ghiacciai si erano addirittura allungati, si erano ripresi, c’era stata una leggera inversione. E allora il cambiamento è iniziato negli anni Ottanta, per poi galoppare dal 2003 in poi, da quella grande estate calda. Un cambiamento che si è fatto talmente veloce che non siamo più riusciti a stargli dietro».
Per chi ne scrive, per chi scrive di ghiacciai, ora diventa complesso descrivere qualcosa che – lo sappiamo – non ci sarà più. «Io la considero una grande metafora», spiega ancora Camanni. «Noi viviamo alla fine di una civiltà. Non perché domani è destinata a finire, no, ma perché oggi siamo costretti a cambiare, dobbiamo farlo, per mille ragioni. E questo ghiaccio che si fonde sotto ai nostri occhi è la metafora del limite. Fin qui ci siamo sempre spinti oltre, pensando che la Terra fosse illimitata. Ma questo ci pone sotto agli occhi che invece lo è, è limitata. E persino ciò che eravamo convinti fosse perenne – la neve, il ghiaccio – non lo è. Tutto è limitato: noi, gli esseri viventi, e persino le montagne. Ecco allora che, quando devo scriverne, di solito la penso come una metafora di un’epoca che deve affrontare una nuova visione, la quale a sua volta dovrà incorporare un limite, quello stesso limite che negli ultimi decenni è stato bandito».
Lo scrittore – che da poco ha pubblicato per Mondadori il libro Se non dovessi tornare, la vita bruciata di Gary Hemming – si dice colpito da quelle cerimonie funebri che si fanno per commemorare i ghiacciai che non ci sono più, in particolare in Islanda. «In Italia se ne parla appena, ma d’altronde è un Paese che ignora ancora le montagne, che finge di non vederle. Certo, dieci anni fa se ne parlava ancora meno. Io stesso comunque ho partecipato ad alcune di queste cerimonie, molto laiche, e trovo sia giusto riflettere di fronte a questi fatti della natura, andare direttamente sotto un ghiacciaio e sentire qualcuno raccontare che cinquant’anni fa quello stesso ghiacciaio arrivava fin laggiù, e vent’anni fa qualche metro più su… Insomma, partecipare, vedere per capire, perché sono concetti che bisogna sentire, per capire».
Di Paolo Galli