«Colleghi, mi dimetto: vado in Ticino»
fuggi-fuggi di infermieri lombardi non si arresta – Dopo lo sciopero, la testimonianza di chi è pronto a fare le valigie
L’infermiere Petrozziello all’esterno dell’ospedale Sant’Anna di Como. © CDT
L’ultima volta gli è successo il mese scorso. Un collega si è presentato in reparto come ogni giorno e ha annunciato con un gran sorriso: «Ragazzi oggi do le dimissioni. Me ne vado in Svizzera». Cristian Petrozziello ha provato un misto di invidia e gioia, che conosce bene: da quando ha iniziato a lavorare all’Ospedale Sant’Anna di Como almeno un centinaio di infermieri hanno abbandonato il lavoro per trasferirsi in Ticino o fare i frontalieri. «Sono contento per loro e allo stesso tempo mi chiedo quando toccherà a me» sospira.
Pochi giorni prima anche Cristian aveva fatto un colloquio con una struttura in Ticino. Aspetta il risultato con pazienza e spera sia positivo: le ragioni per andarsene sono sempre di più. Martedì l’intero settore sanitario in Italia ha scioperato per la prima volta dall’emergenza Covid: salari bloccati, sovraccarico di lavoro, turni massacranti e pensioni tagliate sono alcune delle ragioni per cui l’85 per cento del personale a livello nazionale ha aderito. Una percentuale altissima.
In 450 hanno già fatto le valigie
Nel blocco operatorio dell’ospedale Sant’Anna la maggior parte delle operazioni sono state rimandate. L’operatività si è ridotta al minimo anche in settori dove, per l’urgenza delle cure offerte, buona parte dei medici e degli infermieri sono stati «precettati», ossia interdetti dallo scioperare con decisione del Prefetto. Cristian non era fra questi ma ha lavorato comunque, pur essendo un rappresentante sindacale: è l’unico infermiere in tutto l’ospedale specializzato nell’impiantare cateteri, ad eccezione di un collega che era in vacanza. Scioperare voleva dire lasciare decine di malati oncologici senza servizio. Non aveva altra scelta.
La mancanza di personale e in particolare di infermieri specializzati – come Cristian – non riguarda solo il Sant’Anna ma tutta la fascia di confine. Nelle provincie di Como, Varese e Sondrio si stima, dato di settimana scorsa, che dopo la pandemia siano 450 gli infermieri «partiti» per il Ticino senza più tornare. A novembre la ASST Lariana – l’azienda sanitaria comasca – per riempire il «buco» almeno in parte ha bandito un concorso a cui hanno partecipato 200 candidati su 130 posti disponibili. Al netto dei rinunciatari – che hanno preferito lavorare in Svizzera o nel privato – gli altri sono stati tutti assunti.
«Questo dovrebbe portare un po’ di respiro alle nostre strutture ma se non cambieranno le condizioni durerà poco: tra qualche mese altri infermieri se ne saranno andati in Ticino, e saremo punto e accapo» sottolinea Monica Trombetta, segretaria regionale del sindacato infermieristico Nursing Up. Il sogno ticinese è alimentato da condizioni oggettive ma anche da un immaginario veicolato dai social, dal passaparola, e preoccupa le autorità sanitarie italiane ancora più degli scioperi.
Vacanze e stipendi doppi
I colleghi passati «di là», dall’altra parte del confine, sono i testimonial di questo sogno. «Li vedi, che stanno meglio» spiega Cristian sorridendo. «Lo vedi dalla faccia, dagli abiti, dalle vacanze che iniziano a fare poco dopo aver cambiato lavoro». Tra ex colleghi si rimane in contatto e spesso proprio questi legami – oltre a fomentare il desiderio – sono l’aggancio per venire in Ticino. «Tanti mi dicono: perché non vieni anche tu?» ammette Petrozziello. «Io non aspetto altro, ma mi sono sempre posto come limite quello di mantenere la mia specializzazione. Non lascerei quello che ho qui per un posto qualsiasi, ecco».
Durante la pandemia Petrozziello, come molti colleghi, ci è andato molto vicino. Aveva ricevuto un’altra offerta proprio prima dell’emergenza Covid, ma quando si è trattato di decidere non se l’è sentita: «La situazione era disastrosa in ospedale, non sapevamo cosa sarebbe successo e quando la crisi sarebbe finita. Per responsabilità e vicinanza ai colleghi e ai pazienti, ho deciso di rimanere». Passata la tempesta, però, le speranze di un miglioramento coltivate da molti nella sanità lombarda sono state disattese.
La manovra che non piace
«È come se si lavorasse sempre in emergenza» sintetizza Trombetta. «Molti colleghi hanno la sensazione di essere stati presi in giro e per questo se ne vanno». Alla frustrazione e allo stress sul posto di lavoro si aggiungono ragioni extra-sanitarie come il carovita: i trasferimenti verso migliori retribuzioni nella sanità privata o verso il Sud Italia – dove gli affitti e in generale il costo della vita sono inferiori – sono aumentati riducendo ulteriormente il personale rimasto.
La travagliata legge di bilancio 2024 firmata dal governo Meloni non sembra destinata a migliorare le cose. La «manovra» – come viene chiamato il preventivo finanziario della vicina Repubblica – avrebbe dovuto passare dal Parlamento romano questa settimana, ma la discussione è slittata ancora: proprio la sanità, sottolinea la stampa italiana, è uno dei temi più «spinosi». Oltre a un discusso taglio delle pensioni per medici e infermieri, la legge stanzia risorse giudicate «largamente insufficienti» dalle sigle sindacali. «Le condizioni economiche e lavorative degli infermieri non migliorano, non si copre il turnover e non si potenzia la sanità territoriale» sottolinea Trombetta.
Il divario rimane
All’ospedale Sant’Anna gli straordinari sono «all’ordine del giorno» e gli stipendi, come in tutta la sanità italiana, sono fermi a un contratto collettivo scaduto da due anni. Un infermiere neo-assunto prende 1.500 euro al mese, a fronte di 3.500-4.000 franchi netti in Ticino. In 24 anni di lavoro Petrozziello ha avuto un aumento di appena 250 euro – per scatti di anzianità – nonostante le specializzazioni conseguite. Fatti due conti, lavorare in Ticino come frontaliere gli frutterebbe tra i 1.750 e i 2.250 franchi in più al mese: praticamente il doppio dello stipendio attuale. «Con tre figlie in età scolare e pronte ad andare all’università, mi farebbero più che comodo».
Il conto va aggiornato, è vero, alla luce di una serie di disincentivi vecchi e nuovi. Oltre al traffico – «chiaro che non invoglia» – c’è la doppia imposizione per i nuovi frontalieri, introdotta a seguito dell’accordo fiscale tra Svizzera e Italia. Più un nuovo balzello – dal 3 al 6 per cento del salario annuale, anche questo è oggetto di discussione nella «manovra» romana – con cui i permessi G potrebbero essere chiamati a contribuire al sistema sanitario nelle zone di confine. «Un paradosso» secondo Trombetta, in quanto «ancora una volta lo Stato anziché investire risorse preferisce prelevarle dai lavoratori, compresi quelli che dalla sanità sono scappati per le pessime condizioni di lavoro».
Ma il divario resta notevole, e gli aspiranti frontalieri della sanità non si scoraggiano. Anche l’arrivo di una «indennità di frontiera», promessa dalla legge di bilancio per i professionisti sanitari che rimangono a lavorare nella fascia di confine, non incide troppo sul desiderio di partire. Anche perché – da ultime indiscrezioni – si tratterebbe di 200 euro netti in più al mese, a fronte di 500 prospettati inizialmente. Davanti al toto-numeri Petrozziello si lascia scappare un altro sorriso. È molto legato ai suo i colleghi e all’ospedale, dove tra l’altro ha conosciuto sua moglie, operatrice sanitaria. «Sommando i nostri stipendi non ne facciamo uno svizzero, anche con gli aumenti» calcola. All’idea di andarsene gli viene il magone. Ma non si guarderebbe indietro.