La storia dei lavoratori e delle lavoratrici italiane in Svizzera vista con gli occhi dei loro figli. Ragazzi e ragazze costretti a frequentare le scuole italiane dapprima e quelle svizzere in seguito come “scolari ospiti”, in attesa che i genitori decidessero di rientrare con tutta la famiglia in Patria. Sul tema lo storico Paolo Barcella ha recentemente pubblicato un libro che ripercorre, attraverso la lettura dei temi scolastici, la storia dell’emigrazione italiana.
Il titolo del libro di Paolo Barcella Scolari ospiti si riferisce ai bambini delle scuole italiane in Svizzera, nati da genitori immigrati considerati Gastarbeiter, lavoratori ospiti, che sognavano di ritornare presto in patria. I figli, quindi, non erano pienamente integrati nel sistema scolastico svizzero e venivano educati per un eventuale rientro in Italia.
Le Missioni cattoliche italianeCollegamento esterno e le Colonie libere italianeCollegamento esterno hanno avuto un ruolo fondamentale nel supporto alla comunità migrante, ma la loro funzione variava: alcune favorivano l’incontro con la società locale, mentre altre contribuivano alla chiusura degli italiani nella propria comunità.
Il libro si basa su fonti d’archivio delle scuole Enrico Fermi di Zurigo e Dante Alighieri di Winterthur. Barcella, storico e professore all’Università di Bergamo, attraverso la lettura dei temi scolastici, racconta il ruolo delle scuole italiane in Svizzera nell’educazione dei figli di migranti, evidenziando le tensioni tra l’integrazione nel sistema svizzero e la preservazione della lingua e cultura italiane. Il tutto attraverso gli occhi degli allievi e delle allieve.
Un obiettivo centrale del libro è proprio dare voce ai giovani migranti, presentando le loro esperienze autentiche, e riflette sulle dinamiche migratorie che, sebbene cambiate, continuano a essere rilevanti ancora oggi.
tvsvizzera.it: Professor Barcella, ci spieghi il titolo del libro, perché Scolari ospiti?
Abbiamo incontrato Paolo Barcella a Bergamo, in città alta. Con lui è iniziata una conversazione culminata nell’intervista che vi proponiamo qui di seguito.
Paolo Barcella: La scelta del titolo Scolari ospiti dipende dal fatto che in qualche modo queste bambine e questi bambini che frequentavano gli istituti scolastici, nel nostro caso la Dante Alighieri di Winterthur e l’Enrico Fermi di Zurigo, rispondevano alle esigenze di una politica migratoria che pensava i lavoratori stranieri come lavoratori ospiti, i cosiddetti Gastarbeiter. Quindi così come i loro genitori erano Gastarbeiter di cui ci si aspettava un rientro al Paese d’origine dopo qualche anno trascorso lavorando nella Confederazione, così i loro figli: bambine e bambini non integrati nel sistema scolastico svizzero, ma cresciuti all’interno di istituti scolastici gestiti da italiani che li preparavano nell’ottica di un rientro al Paese.
In tutto ciò che ruolo hanno giocano le Missioni cattoliche e le Colonie libere italiane?
È il grande tema di cui si dibatte e di cui si dibatteva già all’epoca: qual era la funzione delle strutture per l’assistenza della comunità migrante italiana? Hanno svolto una funzione di mediazione e di ponte verso la società locale oppure al contrario hanno favorito una dinamica di chiusura degli italiani all’interno della propria comunità nazionale di riferimento?
È difficile dare una risposta univoca perché in realtà le stesse Missioni cattoliche italiane, così come il mondo dell’associazionismo in generale come, ad esempio, le Colonie libere italiane, erano numerose e gestite da persone diverse con una mentalità e una prospettiva diversa che talvolta favorivano l’incontro dei migranti italiani con la società elvetica, altre volte invece le impedivano. Gli stessi lavoratori italiani in qualche modo avevano interiorizzato l’idea che dovessero stare in Svizzera per qualche tempo per poi tornare in Italia, a casa. Così il mondo associativo rispondeva a questo tipo di esigenza: dare ai lavoratori stranieri dei luoghi e degli spazi in cui poter essere delle persone fuori dall’orario di lavoro in attesa di realizzare il sogno del rientro a casa.
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Leggendo questi temi si ha la prospettiva della migrazione vista con gli occhi dei figli e figlie dei migranti: differisce dalla visione dei loro genitori?
Ci sono due nuclei principali di testi che ho provato a mettere a confronto in questo in questo lavoro. Da un lato quello dei primi anni Settanta che sono stati scritti dai figli dei Gastarbeiter della prima epoca, quindi figli e figlie di lavoratori che molto spesso sono semplice manovalanza attiva nei cantieri, nelle fabbriche, nell’agricoltura. Sono i figli del proletariato migrante. Un gruppo sociale, ancora in buona parte marginale, che cercava di farsi spazio e che doveva vivere con l’ostilità, anche forte, di una parte della popolazione svizzera. Pensiamo all’iniziativa Schwarzenbach.
I temi di questi ragazzi che hanno subito la migrazione, sono portatori dei bisogni e dei desideri del gruppo sociale a cui fanno riferimento. Quindi la necessità di trovare lavoro, di aiutare la famiglia, la difficoltà a integrarsi nella società svizzera. Non da ultimo il sogno di ritornare un giorno a casa.
Il secondo nucleo riguarda i figli dei migranti italiani di oggi che vivono in tutt’altra situazione…
I figli della comunità italiana odierna vivono uno statuto completamente diverso perché intanto fanno parte dell’Unione europea e godono dunque degli accordi bilaterali sulla libera circolazione delle persone. Non sono più i figli del proletariato migrante. Questi ragazzi e ragazze – emerge dai temi – vivono i problemi degli adolescenti di oggi, gli stessi che devono affrontare i loro coetanei svizzeri. Certo, anche dagli scritti dei ragazzini italiani di oggi emergono alcune questioni legate al confronto culturale e linguistico. Anche loro a volte hanno difficoltà ad integrarsi nella comunità locale o a scolarizzarsi nelle scuole svizzere.
Quello che colpisce in modo molto marcato soprattutto nei temi degli anni Settanta è la presenza continua del sogno di tornare a casa un giorno.
Scolari ospiti, appunto. I ragazzi che vivevano l’esperienza della scolarizzazione italiana in Svizzera a quel tempo erano proprio i figli di quegli anni, di quella parte di mondo italiano che progettava di rientrare. Quindi riteneva tempo perso e fatica sprecata provare a inserire i figli nei percorsi di scolarizzazione locali che avrebbero semplicemente reso più complicato il ritorno in Italia. Perciò questi ragazzini venivano scolarizzati in una scuola italiana in Svizzera, con programmi e insegnanti italiani, in attesa di tornare in Italia. I temi sono intrisi da quest’idea, che oggi potremmo quasi dire romantica. La storia ci insegna che molti di questi ragazzi con il sogno del rientro in patria li ritroviamo anziani in Svizzera.
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Quando questi figli e figlie dei lavoratori italiani smettono di essere considerati degli scolari ospiti?
La grande svolta nella storia dell’emigrazione italiana verso la Svizzera l’abbiamo all’inizio degli anni Ottanta. L’emigrazione italiana non è più un fenomeno di attualità, gli arrivi sono diminuiti e in Svizzera esiste ormai una comunità italiana che si sta stabilizzando. Nel suo stabilizzarsi la comunità comincia anche a vivere dinamiche di ascesa sociale. Gli italiani nel corso degli anni Ottanta e i primi anni Novanta non sono più soltanto i lavoratori di cantiere o i lavoratori di fabbrica tessile o quelli che lavorano nell’agricoltura, ma sono sempre più attivi nel terziario con ruoli anche dirigenziali.
Andando nello specifico, è curioso notare come il bilinguismo di questi ragazzi venisse ritenuto uno scoglio per una buona scolarizzazione.
Inizialmente si registrava un tasso di insuccesso scolastico tra i figli dei migranti italiani molto alto. Si cominciò a ragionare sui motivi di questo insuccesso. C’è chi ipotizzava che i figli di italiani fossero più stupidi… Poi chi studiava questo fenomeno cominciò ad individuare una variante comune: ciò che probabilmente rallentava i percorsi di formazione e che portava questi ragazzi verso l’insuccesso era il fatto di essere bilingui. Tutti i bilingui, che fossero figli di italiani, di portoghesi o di spagnoli, soffrivano dello stesso problema. Il fatto di avere una madre lingua diversa e di parlare due lingue all’interno della scuola veniva ritenuto il motivo principale degli insuccessi scolastici.
…invece…
Le difficoltà scolastiche non erano dovute al bilinguismo, erano piuttosto dovute a problemi di ordine economico e sociale che impedivano lo sviluppo pieno di quelle facoltà che permettono di avere un ottimo rendimento scolastico. Questi fattori vengono invece accantonati in favore di una lettura superficiale: tutti gli allievi bilingui hanno difficoltà nella scolarizzazione perché fanno confusione saltando da una lingua all’altra. Questa chiave di lettura in parte è presente ancora nel dibattito attuale. Ci sono delle micro-realtà, anche in Italia, che spiegano e provano a spiegare gli insuccessi scolastici degli immigrati a partire dalle tensioni tra una lingua madre e la lingua che si parla all’interno della scuola.
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Quando questi figli e figlie dei lavoratori italiani smettono di essere considerati degli scolari ospiti?
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Andando nello specifico, è curioso notare come il bilinguismo di questi ragazzi venisse ritenuto uno scoglio per una buona scolarizzazione.
Inizialmente si registrava un tasso di insuccesso scolastico tra i figli dei migranti italiani molto alto. Si cominciò a ragionare sui motivi di questo insuccesso. C’è chi ipotizzava che i figli di italiani fossero più stupidi… Poi chi studiava questo fenomeno cominciò ad individuare una variante comune: ciò che probabilmente rallentava i percorsi di formazione e che portava questi ragazzi verso l’insuccesso era il fatto di essere bilingui. Tutti i bilingui, che fossero figli di italiani, di portoghesi o di spagnoli, soffrivano dello stesso problema. Il fatto di avere una madre lingua diversa e di parlare due lingue all’interno della scuola veniva ritenuto il motivo principale degli insuccessi scolastici.
…invece…
Le difficoltà scolastiche non erano dovute al bilinguismo, erano piuttosto dovute a problemi di ordine economico e sociale che impedivano lo sviluppo pieno di quelle facoltà che permettono di avere un ottimo rendimento scolastico. Questi fattori vengono invece accantonati in favore di una lettura superficiale: tutti gli allievi bilingui hanno difficoltà nella scolarizzazione perché fanno confusione saltando da una lingua all’altra. Questa chiave di lettura in parte è presente ancora nel dibattito attuale. Ci sono delle micro-realtà, anche in Italia, che spiegano e provano a spiegare gli insuccessi scolastici degli immigrati a partire dalle tensioni tra una lingua madre e la lingua che si parla all’interno della scuola.
Un’ultima domanda, anche se forse doveva essere la prima: quale era l’obiettivo di questa pubblicazione?
Avevo più obiettivi. Innanzitutto, riuscire a rinchiudere in un numero contenuto di pagine una storia della scolarizzazione che ha coinvolto migliaia di piccoli italiani in Svizzera. Questa storia è anche rappresentativa delle tensioni e dei problemi che ha vissuto la comunità italiana nel suo complesso.
Il libro è anche il tentativo di ricostruire la storia di un’esperienza scolastica che è stata il prodotto di un lavoro culturale e politico che la classe dirigente dell’immigrazione italiana dell’epoca ha saputo svolgere. La comunità migrante seppe infatti darsi una sua classe dirigente capace di interloquire da una posizione simmetrica con le istituzioni elvetiche provando a risolvere i problemi che viveva la propria comunità.
>>Nate negli anni ’20 su iniziativa di esuli antifascisti, le Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera sono oggi confrontate con una sfida vitale: ridefinirsi per potere dare risposte alla nuova mobilità:
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“Una storia tutta svizzera e tutta d’emigrazione”
Ultimo obiettivo, che però è quello che colpisce di più il lettore, è quello di provare a raccontare l’esperienza della migrazione con le parole dell’infanzia. Nel libro sono pubblicate le scritture pure di bambine e i bambini, cioè senza miei interventi, perché sono convinto che la loro narrazione, la loro prospettiva, il loro punto di vista meriti di essere conosciuto e condiviso, senza il filtro di una riflessione di carattere sociologico, storico o sociale.
Riccardo Franciolli